La storia di San Giovanni e della Parrocchia
L’antica vicinanza lecchese detta del Consiglio
La fonte principale per la ricostruzione territoriale del Comune di Lecco nel Medioevo rimane il testo degli Statuti giunto a noi in una redazione manoscritta della seconda metà del Trecento, poco difforme dal testo stampato nel 1594 e nel 1669. In quel tempo il Comune era distinto nella comunità del Borgo, con le sue adiacenze, e in una serie di realtà periferiche denominate “vicinanze”; esse, secondo anche quanto risulta da alcuni atti notarili di fine Trecento, erano costituite da Ballabio, Brumano e Morterone, Laorca, Rancio, Castione, Gessima, Concilio, Olate, Acquate, Germanedo, Belledo, Ancillate ( comprendente Sant’Ambrogio, Maggianico e Barco), Chiuso, Cornedo. Ogni vicinanza aveva un suo territorio, i cui confini e i cui coltivi erano controllati da camparii, nominati annualmente dai consoli del Comune; probabilmente gli abitanti erano anche organizzati con un patto di reciproco aiuto all’interno del gruppo demico locale ed esprimevano un proprio console, che sappiamo ad esempio esistere nel 1374 ad Olate. Nei secoli seguenti man mano le vicinanze si comportarono come dei veri Comuni pur se federati nella Comunità Generale di Lecco, la quale aveva un Anziano come rappresentante alla Congregazione del Ducato in Milano.
Tale conformazione comunitaria doveva esser piuttosto antica e trovare un legame fra i vari luoghi in un “fundus” altomedievale denominato Lecco, ricordato nel 879, che alcuni ipotizzano però ben più lontano nel tempo; Leuco è però citato nel 845 e appare anche un locus nel 879 e nel 903, mentre nel frattempo, nel 854, a Lecco si segnalano dei vici come Arlenico e Acquate, ciò che ci rende sicuri della denominazione generale di Lecco data al gruppo di abitati della conca. D’altra parte la comunanza di interessi degli abitati lecchesi poteva esser stata aumentata dalla presenza di un qualche potere militare barbarico e quindi, a partire dal 870 circa, di un conte che aveva residenza nella fortezza detta Castrum di Lecco, a Castello, e che dominava un ampio comprensorio sul Lario e sulla Brianza, fino al Meratese, alla Valle San Martino, a Chiavenna e alla zona dell’Isola Comacina. Smantellato man mano il potere dei conti, prima con la sconfitta del conte Attone nel 964, dopo la ribellione del conte e dei feudatari italici all’imperatore Ottone, successivamente man mano usurpato il territorio dall’arcivescovo di Milano Ariberto e dai suoi vassalli o capitanei, i confini del vecchio Comitato di Lecco si erano di fatto ristretti a questa parte centrale, la conca di Lecco trasformatasi in vero Comune almeno prima del 1160, quando se ne ha attestazione nel conflitto col Barbarossa. Questo Comune, spesso in lotta con quello egemone di Milano, osservava nominalmente la signoria anche temporale degli arcivescovi milanesi. Aveva quindi a inizio Duecento uno status parificato a quello dei cittadini della metropoli e frattanto versava qualche onoranza al presule, al quale rimanevano alcuni privilegi, ad esempio quelli sulla pesca, e un palazzo, posto entro l’antico Castrum, ma forse anche duplicato in una residenza entro il Borgo allora in grande espansione economica e mercantile. Sul finire del Duecento, Bonvesin della Riva nel suo scritto sulla grandezza di Milano conferma la separatezza dalla città della comunità borghigiana di Lecco al quale erano sottoposti nove villaggi, entità che nel secolo seguente dovevano essersi maggiormente frazionate, forse in ragione dello sviluppo demico dei piccoli abitati.
Del Concilio o Consiglio non si sono purtroppo rintracciate finora particolari memorie. Era una zona abbastanza ampia, delimitata a nord dal corso del fiume Gerenzone, a sud da un vasto appezzamento coltivo detto il Vincanino, a sud in parte dal territorio di Olate e dal corso del Volone, a est forse dal ponte di Malavedo; il territorio si estendeva a sud a comprendere le colline del Montalbano, cosparse di piccoli casali, che erano, nel corso dei secoli XIV-XV, Varigione, Cabolgiolo, Piazzola, Cavagna, Cafranoscio, Cereda; sul percorso che scende da Malavedo e Laorca stavano la Castagna, detta pure spesso in seguito Contrada, poi la Cima, che però appartenne regolarmente a Rancio, e infine Mazucco, località ancora non individuata esistente nel 1419; più tardi si trovano pure ricordati Cavalesino e Cadegatti (es. 1624).
Il complesso del territorio della vicinanza era per lo più formato da coltivi di buona resa; prati campi e vigne circondavano la Castagna, Cabolgiolo, Varigione, il Butto, ai cui limiti si trovavano invece delle selve, la cui consistenza in antico viene indicata dal nome del luogo di Cadegatti, che rappresenta la corruzione di Ca de Gaggio. Il “gaggio” – termine molto in uso un tempo- era infatti un bosco recintato di uso comune per la raccolta di pali e ramaglie, che prese tal nome dalla popolazione longobarda. Questo elemento toponomastico sembra potersi considerare un relitto di remote usanze e si può affiancare a quello di Vincanino: questo sarebbe riferito a prati e campi “vicani” cioè delle comunanze di antichissima origine, fors’anche dei tempi della romanità. Lecco aveva nel Trecento ancora terre e pascoli comunitari, aperti a ogni vicinanza, ad esempio il noto Prato presso la porta di Milano, oppure i pascoli di Porcarola sul Resegone, di Balisio, di Agra sul monte San Martino, anche quest’ultimo distinto con un nome di sapore latino.
A questo proposito, diventa importante il ritrovamento di poche monete romane di Massimino, emerse intorno alla casa Rusconi, al limite appunto del Vincanino. I ritrovamenti romani o tardoromani nella conca di Lecco sono numerosi, anche se poco studiati, anche perchè i materiali sono andati per lo più distrutti. Però ci bastano per esser certi della presenza almeno in età imperiale di piccoli abitati, cui si riferivano le sepolture certe volte scoperte. In questo intorno –proprio per qualche lapide o tomba- conosciamo solo la probabile esistenza di case a Castello, a Olate, a Luera, a Castione, ad Arlénico: e in queste ultime due località si sono trovate delle necropoli abbastanza consistenti;. più a monte vi sono solo scarse tracce presso le grotte di Laorca. Altri indizi, presso Olate, quindi sopra Rancio e ancora a Laorca, fanno credere a presenze umane remote, del periodo golasecchiano nel primo caso, ancor precedenti negli altri.
Se la zona di San Giovanni tace fino al basso Medioevo, queste monete imperiali e la toponomastica sembrano però concorrere a far credere che alcuni impianti abitativi potessero sussistervi almeno nell’alto Medioevo.
Da questo punto di vista della toponomastica è infine interessante il termine di Castagna; è questo, dentro il territorio del Concilio, l’abitato principale, che sembra indicare la sovrapposizione a un antico bosco che gli ha dato il nome. Si può anche ricordare che in antico, ma ancora in certi paesi nell’età comunale, le riunioni dei vicini avvenivano all’aperto in siti deputati al ritrovo tradizionale, certe volte anche intorno a un albero dal valore particolarmente significativo. Non si può quindi escludere che la zona del Concilio fosse in tempi lontanissimi il centro delle proprietà comunitarie delle popolazioni della conca di Lecco e che in quei terreni si radunassero le famiglie intorno a un simbolico albero. Una piazza della Vicinanza si trova alla Bruga di Vendrogno, dove si tenevano le adunate della Muggiasca; in quella del Consiglio a Introzzo avveniva lo stesso e il quartiere era denominato Vesino. Si ricordi inoltre che dalla Castagna si delineava, attraverso Cereda, la Strada mandria, che correva lungo il confine col territorio di Laorca sulle pendici del Montalbano, diretta alla sella di Ballabio: un altro percorso che doveva essere strategico nell’economia antica, come collegamento con i pascoli e i siti di allevamento di cavalli e pecore della Valsassina e della Bergamasca, donde nasceva nel Trecento un commercio anche di lane per tessuti locali venduti però anche a Milano.
La chiesa di San Giovanni si trova e si trovava ai margini del fondo del Concilio, sopra un rialzo dell’argine sinistro del fiume Gerenzone, in posizione piuttosto defilata rispetto agli abitati, anche se forse qualche caseggiato poteva sorgere lungo quella che era la vecchia strada per la Valsassina. La prima notizia della sua esistenza è contenuta soltanto negli Statuti comunali della seconda metà del Trecento: ma questo testo ci offre un elemento importante, in quanto denota che la chiesa sorgeva sopra un importante percorso stradale pedemontano. Tale percorso proveniva da Germanedo, passava al ponte sotto Acquate, si dirigeva alla chiesa di Olate, da qui saliva alla chiesa di San Giovanni Evangelista, passava il fiume Gerenzone probabilmente sopra un ponticello là dove ancora uno se ne trova, toccava la Viacroce sopra il luogo di Capenzono (che è la zona fra Cà del Basso e Panigada): lì continuava per Castione e per i Ronchi, mentre una diramazione scendeva fino all’Arlénico, dove si trovava un altro ponte -vicino alla chiesa di San Bartolomeo poi inglobata nel monastero divenuto in seguito il seminario- su cui passava il collegamento con Castello. Tale linea stradale era allora considerata il limite entro il quale non si potevano allevare ovini.
Una chiesetta posta su tale percorso sembra possa avere una origine lontana, giustificata dalla persistenza di un sistema di comunicazioni radicato nelle abitudini locali, tanto da esser persistito fino a tempi recenti. La dedicazione all’Evangelista è piuttosto rara e generalmente considerata fra le prime del mondo cristiano del Milanese: esempi noti sono dati dalla basilica “adriatica” di Castelseprio, dalla parrocchiale di Castelmarte e da quella di Cernusco Lombardone, tutte località che nell’alto Medioevo ebbero rilievo nell’ambito delle strutture fortificate della campagna. Il titolo è comunque molto raro in quello che fu il territorio del Comitato o Contado lecchese, non trova riscontri nell’area lariana e montana; nella finitima Brianza soltanto in Galbiate, dove l’attestazione – poco chiara per la sovrapposizione di titolo ed edificio con l’adiacente San Vittore- pare accertabile però nel secolo XII. Rimane in ogni caso arduo comprendere il significato di una chiesetta e di una dedicazione del genere, immaginabile eventualmente in rapporto a bisogni di evangelizzazione a fronte di un’area frequentata tradizionalmente da popolazioni pagane: l’Evangelista denota segno di resurrezione e rivelazione, elementi fondanti della Chiesa romana.
Famiglie ed abitanti fra Duecento e Cinquecento
Del paese e dei suoi abitanti conosciamo ben poco. E’ abbastanza probabile che a San Giovanni abitassero già nel Duecento i nobili Gualzoni, uno dei quali di nome Marchione figurava fra i consiglieri comunali che nel 1252 dichiaravano la resa di Lecco alle truppe dell’arcivescovo e del comune di Milano, nell’ambito di una complessa guerra in quel tempo mossa contro gli aderenti all’imperatore Federico II; e ser Ambrogio Gualzoni era pure il notaio del nostro comune. I Gualzoni erano nel secolo XIV una famiglia di notevole rilievo, che si trova pure col nome di Guazzoni; numerosi suoi componenti furono filoviscontei e, come parenti dei Parravicini, o Carcano di Casiglio, alcuni chierici –come Giovanni di Ambrogio e Beltramino, ottennero fra 1335 e 1337 canonicati a Varese, Incino, Nesso, e nel duomo di Como. Più tardi si conoscono i de Cereda, che fecero parte invece del partito antivisconteo, e nel 1364 Bernabò Visconti fece decapitare <antonio insieme con altri ribelli degli Arrigoni di Taleggio. Questa famiglia, dopo la morte del duca Giangaleazzo e l’inizio delle cuente guerre di successione che sconvolsero anche il nostro territorio, sostenne la signoria di Pandolfo Malatesta; nel 1415 Rainardo de Cereda con Giacomo de Testis, notaio mercante e appaltatore dei dazi, fu all’obbedienza del nuovo duca come procuratore delle comunità di Quade (Acquate), Volate (Olate), Cereda, Varigione, Lacima di Castiono, Mazucho, l’anno dopo alcuni di Cereda, dei Valsecchi e altri di Varigione, alcuni di Castagna figuravano sia come fittavoli di terre confiscate o comunitarie sia come fornitori del Malatesta, il quale rimase signore di Bergamo e di Lecco fino all’estate del 1419, quando l’intero Comune di Lecco dovette cedere al duca. Nella seconda metà del Trecento Lecco era una piazza mercantile di rilievo. I Cereda compaiono anche come mercanti di granaglie, con centro a Cereda, ma con possedimenti e cascine anche a Camarcadone nel 1386 e alla Castagna. Qui nel 1397 abitava un Antonio detto Secho fu Simone, che allora acquistava da ser Giovanni Longhi campi e vigne “ad lacastaneam”; nel 1398 Zanni abitante anch’egli alla Castagna, acquista ugualmente dal Longhi “in agris de lacastanea terratorii leuci ubi dicitur ad lacastaneam” parte di una casa paleata e solerata nel sedime della Castagna e varie terre grugate in Cereda Alta; i Cereda dunque erano in contatto con i notabili viscontei e tendevano ad estendere i loro possedimenti nella zona della vicinanza. All’inizio del Cinquecento i Cereda abitanti in quel luogo possedevano ampie terre soggette a livelli a favore della cappellania dell’Assunta nella chiesa di San Nicolò, terre che una volta appartennero ai Serbelloni fondatori di tale cappellania; se ne ha traccia in un atto di divisione fra un ampio gruppo di consorti, alcuni dei quali sotto la tutela di Franceschina Manzoni. Come si vede, piccoli abitati già esistevano là dove li riscontriamo nei secoli seguenti; sono cascine, ma anche case dignitose con corti. Un atto notarile del 1373 rammenta le case solariate e coperte di piode di Cabolgiolo; esse erano proprietà di Martino Pinamonte di Castello fu signor Giovanni Bolzoli di Cereda: i Bolzoli erano quindi un ramo della cospicua famiglia dei Pinamonti di Castello, notai e mercanti che dal 1345 erano cointeressati allo scavo delle miniere di ferro e d’argento della Valtorta insieme con i Longhi. Al Cabolgiolo nel primo Seicento –ma forse anche in antecedenza- era una grande casa di barone de baronis e intorno una terra detta “alla vigna”, il tutto soggetto a livelli per l’Assunta della chiesa di San Nicolò, allora dovuta dal signor Giovanni Maria Manzoni, l’antenato dello scrittore; passò poi a Pasino di Maggianico e ai suoi eredi nobili Bonacina Manzoni. Cascine v’erano pure nel 1373 al Vinchanino de Leuco, ove stava un Vitale Moschonus de Zabucho figlio di Giovanni; i Zabucho erano in stretto contatto, forse come fittavoli, con la famiglia dei Molzio di Olate, noti mercanti di ferro e di grani. I Valsecchi erano abitatori di Varigione, ma pure nel 1400 tenevano le cascine di Cavagna. Della località della Cima si accenna spesso, ma sappiamo che era parte del territorio della vicinanza di Castione. Non così Mazucho che è località ancora non collocabile, ma forse entro la vicinanza del Consilio. Da quel luogo sembrerebbero prendere nome i de Mazucho, poi noti come Mazzucconi; essi erano rami numerosi, alcuni mercanti di vino abitanti a Castione, altri in Laorca, dove il primo attestato nel 1367 è un Simone fu Pasino detto Pelato: così il radicamento tradizionale a Laorca sembra davvero antico. Alcuni però, nella prima metà del Cinquecento, abitavano al Consiglio, e, tenendo conto della frammentazione di tale comunità in piccoli agglomerati, non si potrebbe escludere che Mazucho fosse in origine uno di essi. Nel 1492 a San Giovanni si trovava la casa di Giovanni de Mazucho e a fianco quella del fratello Giacomo figli del fu ser Pietro Barxino; nel 1536 sono ancora segnalati i loro figli Mariolo fu Zani Barxini e Battista fu Giacomo Longhi; a metà Settecento, questa famiglia di imprenditori del ferro aveva ancora officina e casa all’inizio del nucleo di San Giovanni, in corrispondenza delle case già Rusconi. Può essere che ivi fosse il luogo originario di Mazucho, che sarebbe allora il gruppo di case che in seguito assunse ingrandendosi il nome dalla vicina chiesa un tempo pressochè isolata, ciò che determinò la scomparsa del nome del luogo: e nel 1492 compare per la prima volta, sembra, il ” loco de Sancto Johanne Vicinantie Consilij de Leucho”. Quanto a Mazucho, il nome sarebbe derivato da una qualche officina da ferro, si direbbe la prima o la principale, dotata di un poderoso maglio (mazucco), né fa conto la tardiva attestazione della famiglia in questa zona, mancando ancora uno spoglio completo delle filze notarili dei secoli XIV-XV. Un ulteriore notizia riguarda il luogo del Butto, indicato nel 1492 come “albuto”; ivi erano date in fitto ad Antonino de ravitia fu ser Ambrogio di San Giovanni varie selve e prati sotto il monte da don Giovanni Moroni ancora per conto della cappella dell’Assunta.Queste terre erano contermini ad altre campagne dei Mazzucconi, dei Gualzoni e dei Valsecchi, ma pure di un istituto religioso “mulierum nuncupatorum l’Ispiritus”; benchè questo elemento emerga da un documento del 1629, una delle tante ricognizioni relative sempre ai beni dell’Assunta, è un frammento di grande interesse, in quanto restituisce una entità spirituale di cui non si ha traccia in nessuna altra carta del territorio lecchese, indicando probabilmente uno dei segmenti del mondo medievale del luogo che fu oltremodo ampio e variegato, benchè non studiato e ad oggi scarno di notizie: come scarna è la storia sia dei due ospizi di San Giacomo e di Sant’Egidio e del monastero umiliato del Gerenzone che esisteva nel 1298. L’insieme della vicinanza vedeva quindi una serie di casali, posti ai piedi del Montalbano, che era in parte della comunità generale; anche lassù si trovavano però case, quelle appunto di Montalbano citate negli Statuti, ulteriore indicazione di una ampia frequentazione della contrada.
La chiesa fino al tempo dei Borromei
Dopo la citazione degli Statuti, dove sono contemplate anche diverse festività fra cui tutte quelle relative agli Apostoli, la chiesa di San Giovanni appare fra le realtà soggette alla cura della chiesa plebana – allora quella dei Santi Protaso e Gervaso di Lecco (Castello) – negli atti della visita pastorale dell’arcivescovo Gabriele Sforza nel 1455, senza però l’indicazione del nome della vicinanza. In realtà il responsabile della cura d’anime, il prevosto, risiedeva stabilmente entro le mura di Lecco alla chiesa di San Nicolò e usava inviare qualche canonico nelle periferie a seguire una o più comunità. Nel corso del Cinquecento si stabilì l’uso di concedere che le comunità stesse provvedessero alla elezione di un proprio rettore, approvato dal prevosto, generalmente però assente dalla Pieve in quanto spesso incardinato in più importanti basiliche milanesi oppure impegnato in attività politiche, come il Senato; allora bastava l’assenso del viceprevosto, un sacerdote del clero locale lasciato alla custodia della Pieve (dalla quale frattanto si erano staccate come parrocchie autonome Acquate e Ballabio, quest’ultima però ancora in contestazione). Così durante la visita pastorale condotta da monsignor Melchione Crivelli nel 1546, per conto dell’arcivescovo Ippolito II d’Este, molte chiese erano considerate parrocchiali, cioè propriamente legate a una specifica comunità; e San Giovanni apparteneva alla vicinanza detta appunto la Vicinantia, retta da prete Tomaso de Bugo, che in Lecco era pure canonico e curatore di diverse cappellanie della chiesa di San Nicolò, compresa quella dei Medici di Melegnano. Il Bugo era stato nominato da poco e non sapeva chi fosse confessato e comunicato, e gli fu prescritto di tenere il libro dei battesimi. La chiesa era piccola e povera, non vi si teneva il Santissimo, possedeva pochissimi paramenti, non era provvista di un beneficio fisso e aveva sotto di sé una cappella dedicata alla Madonna, evidentemente l’oratorio di Varigione. Le parrocchiali elencate erano quelle di Ballabio, Laorca, Rancio, Vicinanza, Acquate, Lecco, Castello, Barco con Maggianico. In molte chiese non si teneva il Venerabile, ma in genere erano ben amministrate, anche se i laici preminevano negli affari ecclesiastici, fra il popolo non v’erano luterani eretici e concubinari. ( C.Marcora, Il cardinale Ippolito II d’Este arcivescovo di Milano, in MSDM, VI, 1959, p. 508). Poco diversa la situazione nella successiva visita del 1550 attuata da monsignor Falcone Caccia. (vol. 12, f. 96 ss).
Le prime descrizioni si hanno invece nel 1566 e 1569 (vol. 4, vol. 13 fol. 77), quando il rettore era prete Tommaso Bugo e quindi Francesco Rasparoli viceprevosto. L’edificio, a pianta rettangolare, era rivolto ad oriente come di consueto nelle vecchie strutture, mentre la facciata era posta sopra il rialzo del fiume, con brevissimo spazio antistante. La soffittatura era in tetto a vista in legno coperto da piode; l’altare maggiore stava in un presbiterio quadrilatero a volta, che recava antiche e corrose pitture: sul lato nord vi pendevano le corde delle campane da un campaniletto a sezione quadrata e terminante in un fastigio a cono; adiacente era la sacristia. Esisteva un altare a Sant’Antonio, mentre in una cappella aperta sul fianco settentrionale, ugualmente a volte e dipinta, si trovava un altare alla Madonna curato da una scuola o confraternita; la chiesa misurava passi 23 per 13, cioè circa metri 12 per 7 ? Intorno al 1568 era stata riparata e probabilmente munita di un sacello all’ingresso sempre verso nord ad uso di battistero. Dalla visita Cepolla del 1602 sappiamo che i due altari avevano delle buone icone dipinte; nel 1603 era appena stata ricostruita la cappella maggiore, probabilmente però solo riattata e allargata in quanto nel 1608 vi si vedevano ancora molti affreschi antichi e rovinati; allora, sopra la mensa di pietra, stavano il tabernacolo affiancato da quattro statue di angeli dorati e un’icona con la Natività, certo quella precedente. La cappella della Madonna nel 1608 appariva imbiancata e mostrava una pala con la Vergine col Bambino fra i Santi Bernardo e Antonio. Due buone campane erano poste sul campaniletto. Le pareti erano qua e là adorne di immagini di santi, però corrose per la antichità; il tetto era stavolta coperto di tegole. Infine la porta maggiore non si trovava propriamente al mezzo della fronte, ma un poco più a sud.
Queste indicazioni, che permettono di intravvedere alcune migliorie intercorse nei primi anni del Seicento, farebbe credere che l’edificio, allora abbastanza ampio, cioè di circa metri 8,50 per 17,50, compreso il presbiterio, fosse stato allargato verso settentrione offrendo una configurazione “a sala”; tale opera, data la presenza di affreschi ormai corrosi, deve essere avvenuta in tempi molto antecedenti, almeno nella seconda metà del secolo XV, lasciandoci la possibilità di immaginare una chiesuola precedente di dimensioni minori. In effetti sappiamo che varie chiese lecchesi vennero riattate o ingrandite nel secolo XV, particolarmente in età sforzesca, così quelle di San Calimero di Lecco, di San Giacomo, di San Vitale di Olate, la plebana di Castello, il Sant’ Andrea di Maggianico, il San Giorgio di Acquate. Della vecchia chiesa non restano però segni, tranne forse le due tavole lignee che raffigurano gli Apostoli e che dovevano appartenere a una predella di pala d’altare della metà circa del Cinquecento; ma le descrizioni offerte dai visitatori non sono sufficienti per ascrivere con sicurezza i dipinti ad una delle due pale indicate.
Nel 1615 probabilmente la situazione era la medesima. Il cardinal Borromeo ordinava di ingrandire la chiesa verso oriente con una nuova cappella maggiore, di costruire a sud una nuova sacristia e un nuovo campanile; si preoccupava poi della facciata, che occorreva alleggerire, cioè probabilmente arretrare per evitare i pericoli indotti dall’erosione del fiume, lasciando uno spazio per il cimitero il quale peraltro, tutto cintato, si estendeva intorno alla chiesa verso le campagne dell’intorno attraverso cui passava la via di collegamento alla strada principale per la Valsassina: questo ben si evince dalla piantina redatta dal pittore e cartografo bresciano Aragonio Aragone e allegata agli atti del 1608. Se in effetti vi fu un adeguamento, non ci è possibile sapere.
La chiesa non aveva particolari entrate né legati, ma solo l’offerta della comunità o della vicinanza per la curazia delle anime. Questa offerta doveva essere piuttosto tenue e pochi vicerettori rimanevano ivi a lungo. Infatti dopo il Bugo e il Rasparoli, si trovano nel 1574 un Bassiano Riciollo, nel 1579 don Antonio Regazzoni curato pure di Castello ed Olate (vol. 5 f. 47), nel 1581-82 Matteo de Gatti cappellano pure a Rancio Laorca e Olate (vol. 8), nel 1608 il vicecurato Domenico Bertolino (vol. 12 f. 46), nel 1610 Battista Travellini curato di Romanbianco (vol. 12 f. 17) che aveva un reddito di lire 300 annue pagate sui beni della vicinanza, cifra abbastanza usuale, ma che il cardinal Federico trovava ancora insufficiente a che i vicecurati, per lo più delegati dal prevosto, si mantenessero con continuità. Egli chiedeva nel 1615 che si disponesse di 60 aurei per costituire la stabile parrocchia. Era questo, della vera parrocchia, un desiderio diffuso, espresso per esempio da Belledo, da Germanedo, da Olate, unica realtà che in quel momento aveva effettivamente ottenuto il distacco dalla prepositurale. L’idea di un piano di nuove parrocchie risaliva già al 1570, ma allora il prevosto ipotizzava che la Castagna rimanesse alla prepositurale insieme con Germanedo Olate e Castello (vol. 4 f. 200).
La comunità nel Cinquecento e all’inizio del Seicento
Nel 1608 il paese aveva 300 abitanti, di cui 200 da comunione, e numerose frazioni che rendevano problematica la cura. Peraltro alcuni dalla coscienza sporca usurpavano beni e terreni da cui si cavava il reddito del beneficio; ma la ricchezza doveva esserci. Dal Duecento vi abitavano i Gualzoni, appartenenti alla nobiltà borghigiana; dal Trecento si segnalavano i Cereda, mercanti di granaglie abitanti in quel casale; nel Quattrocento emergevano i de Mazucho propriamente in San Giovanni; nel Cinquecento i Dal Meno, proprietari terrieri. Abbiamo poi una serie di elenchi dei capifamiglia delle diverse vicinanze di Lecco chiamati ai giuramenti di fedeltà a Carlo V, ai marchesi di Melegnano e a Filippo II, negli anni 1536, 1544, 1554, nei quali, per la Vicinanza del Consilio, appaiono oltre ai Gualzoni e ai Cereda, vari Mazuco, Dal Meno, Valsecchi, Ravizza, De Lerra, de la Castagna, questi ultimi con l’appellativo nobiliare di ser, da individuare come uno dei ceppi forse dei Crotta; dai 12 capifamiglia del 1536 si passa a un elenco di 19 nel 1554: predominano ancora i Gualzoni, i Cereda, i de Mazuco, vi sono un Vertemati, un Della Crotta, un Ravizza, dei Buttironi fra cui un figlio del signor Giovan Maria, due magistri dei Valsecchi e dei Gualzoni e ancora Simone Valsecchi pubblico negoziatore; vi erano quindi alcuni gruppi distinti e ricchi, anche di famiglie notabili del territorio.
Vi sono poi degli stati d’anime redatti dai cappellani nel 1567 e nel 1574. Nel primo anno si elencano 51 famiglie con 275 persone di cui 150 da comunione; i ceppi sono sempre Buttironi, Valsecchi, Ravizza, Crotta, Airoldi, Cereda, Mazzucconi, Dell’Era, Dal Meno, un Longhi, certi dalla Castagna, quindi compaiono due famiglie di Val Soni, fra cui un maestro Ambrogio, un messer Franco Martinenghi marengone di Bergamo, Francesco Crespi e Bernardino Valle; fra i Dal Meno vi sono due vedove di un Francesco da Napoli e di un Bonetto genovese, segno delle ramificazioni di una famiglia antica e mercantile. L’elencazione del 1574 è ancor più istruttiva, anzitutto perché segnala le contrade, e cioè la Contrada di San Giovanni, Varigione, Cereda, Cabolgiolo, Cavagna, , con un totale di 55 fuochi e 291 abitanti. Ancor più stimolante la precisazione dei mestieri, che vedono poche famiglie applicate alla terra e alla vigna, sparse nelle varie contrade, mentre i lavoranti di ferro sono 25 e logicamente predominanti nella Contrada, 15 sui 30 capifamiglia qui dimoranti. Mercanti del ferro erano la vedova Dorotea Gualzoni di Cavagna e Giacomo Cereda di Cereda; mercanti di ferro e nel contempo mastri di legname erano Bartolomeo e Giovanni Maria Crotta di San Giovanni, dove abitava pure un altro mercante Battista Airoldi, possessore anche di un molino, e il “postero” Giovan Antonio Crotta; fra i lavoranti di ferro sono segnati specificamente un brustolotto di Lecco e due sbavaroli bergamaschi, rappresentanti di alcuni immigrati dai cognomi di Benetti, Magrino, Caladino, Soprante. Questi ultimi appaiono dei benestanti abitanti in Cereda nel 1582. Nel 1561 si ha notizia anche della casa piodata e solariata di Cafrancotio, dove abitava Benedetto de Mandello fu Giacomo.
Nel 1579 la cura è scesa a 51 fuochi e 283 persone, certo in conseguenza della pestilenza detta di San Carlo. Stavolta oltre al molino degli Airoldi e a quello di Bernardo Mazzucconi, se ne trova un altro dei Rossi di Castione; 14 sono i lavoranti del ferro a volte detti tiraferro; uno è il mercante di ferro; a tre fabbri si affiancano due fabbri e legnamari; v’è pure un mercante di panni e un sarto Eliseo Bergamaschi, in realtà un de Donati; infine tre filere, oltre a un officiale. Il panorama dei lavori è dunque più variegato e lo diventa ancor più nel 1582 quando appaiono il notaio Francesco Airoldi detto Boschino, un mercante di lino Francesco Gualzoni di Varigione, Giovan Pietro Tiberto postero del pane, due officiali del podestà nelle persone di Andrea dal Meno alla Castagna e Antonio Moneda a Cereda; i fabbri salgono a quattro, i lavoranti di ferro, con le loro specialità in raspaferro, battitori, brustolotti, eccetera, sono 18, due i tessitori, per un totale di 56 famiglie con 264 persone, numero più ridotto forse per un’altra congiuntura pestilenziale del 1580-1581; esse sono dislocate in San Giovanni (78), Castagna (54), poi Varigione, Cereda, Cavagna, Cabolgiolo e Piazzola; Cadigat è rammentata nel 1579 e nel 1602 è Cadegaggio abitata dai Badoni; Cavalesino nel 1588 in parte divisa con Olate. Immigrati non mancano e in particolare stanno nei due molini Rossi e Crotta dove sta un bresciano; Francesco da Busto sbavarolo corrisponde al Crespi del 1567, che forse si era spostato in qualche fucina dei dintorni magari alla Cima stessa che, pur sulla strada principale, si trovava in territorio di Rancio e Castione; la presenza dei Crespi è oltremodo interessante, in quanto le cronache bustocche affermano che l’arte di rendere sottile il filo di ferro venne introdotta a Lecco appunto da certi Ammirario, Mosino e Battista Crespi, dopo una fase di permanenza nel Bresciano: come si può invece intendere quest’arte era già diffusa da secoli a Lecco, ma in effetti sia gli Ammirario col nome di Amiredi, sia i Crespi, negli ultimi decenni del secolo davano il loro contributo, i primi a Rancio, i secondi a San Giovanni, con probabili perfezionamenti nella tecnologia: a Filippo Crespi fu commissionato il cancello artistico in ferro per la chiesa, che venne però adattato all’oratorio di Varigione (visita). A San Giovanni si ha un panorama attivissimo, che vede solo tre o quattro agricoltori con nove o dieci braccianti, sembra molto simile a quello dell’opposta vicinanza di Rancio, particolarmente dedita al lavoro del ferro, anche se molti operai sono nel contempo agricoltori, fatto specifico dei nove ceppi dei Valsecchi di Cavagna, luogo indubbiamente più appartato e immerso in apriche campagne. Ma non è certo tutto fiori. Le vedove sono una dozzina , pur provviste di case e appartenenti a note famiglie, i poveri un paio. Certamente però la vicinanza appare in linea col forte sviluppo delle attività mercantili e artigiane del ferro, caratteristico dello scorcio del Cinquecento per Lecco; sopra circa 987 famiglie, 122 sono dedite alla trafila e quindi San Giovanni, con 15-18 artieri, anche se ancora lontano da Rancio e Laorca, sembra ormai un centro di tutto rispetto, dove possono confluire le maestranze specializzate che in quel tempo, dal Bresciano, dalle valli bergamasche, dalla Val Gerola e –qui in particolare- da Busto, si riversavano nelle ottime fucine della Vallata del Gerenzone.
Nel 1608 si elencano, fra i 30 fuochi, il notaio Francesco Airoldi, quattro uomini pii e tre osti, un Del Meno e due Crispi; ma pure 7 vedove, dieci orfani e dieci poveri, segno che le condizioni si stanno ulteriormente differenziando nella comunità. La presenza del notaio è sintomatica, tanto quella dei negozianti e degli osti. Le indicazioni fanno pensare a un interesse comunque sempre maggiore verso la piccola comunità, che era attraversata dall’arteria fondamentale per i traffici del ferro e che quindi diventava centro di sosta con le osterie; i magistri erano certamente legati alle attività produttive che si infittivano lungo la Fiumicella del Gerenzone.
Gli impianti produttivi
Se la Cima era il nucleo più importante dell’industria di allora, una fucina grossa esisteva anche alla Castagna almeno dal 1544 e lì giungeva il minerale del Varrone condotto da Arcangelo Arrigoni di Barzio; così ad un’altra, che nel 1552 era di Giovanni Maria Buttironi e nel 1555 di Giovanni Maria Rossi, era interessato Nicola Cipriano Denti, il grande imprenditore minerario del Varrone, che era pure soprastante della Zecca di Milano, il quale vi mandava la ghisa dei suoi forni premanesi; nel 1568 si segnala poi qui una trafileria di Nicola Pelegretto Invernizzi di Malavedo, la quale in seguito, per un certo tempo, appare nelle mani dei Crotta, i mercanti principali del paese in quel settore. Un’altra fucina è indicata come del Consiglio; essa passava per lire imperiali 1350 nel 1613 da Giovan Battista Locatelli di Valtaleggio a Giacomo della Crotta Boldino, che esercitava in altri impianti di Rancio; nel 1618 apparteneva al laorchese Guglielmo Mazzucconi, che proveniva però forse da Varigione; ed ancora in quella zona si segnalava una trafileria data in affitto come allora si usava. E’anche probabile che molino e trafila fossero a volte affiancati nel comune uso delle ruote e dei canali, spiegando la frequenza dei nomi sui due versanti e la duplice attività dei mercanti di ferro e di biade.
Ne esce comunque un quadro piuttosto tipico della situazione lecchese, comune all’intera Vallata, con sicuri picchi di ricchezza che avrebbero ben potuto intervenire nella attività religiosa, che invece non pare brillante. E’ pur vero che nel 1612 venne affermandosi la confraternita mariana – già fondata nel 1608- dell’oratorio di Varigione, ricondotto poco dopo a un certo splendore, forse anche in virtù dei fatti miracolosi di quella Vergine detta appunto delle Grazie, la quale era apparsa nel 1582 ad una certa Maria chiedendo il miglioramento del suo santuario; la Maria fu processata dall’Inquisizione e condannata a esporsi in penitenza con un cero alla chiesa principale. Poi col 1617 la confraternita del Rosario fu accolta nel seno romano e il gruppo di ascritti divenne molto ampio, come si osserva nel registro relativo, che comprende una trentina di associati.
La prima metà del Seicento
Nella comunità prosegue una intensa attività paleoindustriale. Filippo Crespi, che era pure oste, nel 1610 acquista l’officina detta la Trafileria alla Castagna dai Crotta per 1800 imperiali, nella quale erano già cointeressati; poi col fratello Cristoforo –il quale molto avanti il 1608 era gravato di un fitto per la chiesa di Laorca ed era detto il Sbavarolo- Filippo prende la metà di una fucina grossa dei Mazzucconi-Crotta, quindi due fucine dei Cima di Capaino e la trafileria dei Mazzucconi alla Gallina sopra Laorca sborsando ben 5300 imperiali; nel 1612 i due prendono in fitto un’altra fucina di tre curli alla Castagna da Paolo Crotta del luogo. La loro attività quindi si amplia, in concorrenza con le ditte ben note di Rancio e Laorca, facendo perno su San Giovanni; oltre accordi per lavori con i Mazzucconi, nel 1616 si ha un nuovo acquisto della metà della comproprietà coi Crotta della fucina del Consiglio detta la fucina grossa del Capaino per altri 2000 imperiali. Infine nel 1623 acquistano la quarta parte della fucina grossa dei Crotta per 750 lire imperiali, posta a Cà del Basso, in territorio di Castione e proprio di fronte alla chiesa di San Giovanni sulla sponda opposta del fiume: a essi si associano dei Buzzoni di Pomedo. I Crespi si dimostrano perciò l’azienda più ampia e dinamica; ed anche se nel 1632 i Crespi vendono a Francesco Longhi la fucina della Castagna per 525 lire, forse per qualche debito con la notevole famiglia di banchieri e imprenditori, essi continuano a esercitarla, mantenendone in seguito la proprietà.
Altre e numerose erano le fucine. Indicate come al Consiglio stavano nel 1613 una fucina di Giovan Battista Locatelli di Valtaleggio che allora la vendeva per 1350 imperiali all’imprenditore Giacomo Boldino della Crotta, che già possedeva altra fucina alla Cima; il Locatelli figlio, messer Gio Paolo, abitava nel 1624 il Cavalesino /battesimi Lecco). Una trafileria è segnata nel 1618 del laorchese Gugliemo Mazzucconi affittata per 233 imperiali l’anno. Era attivo anche Battista Airoldi detto il Frate di Varigione, figlio di Giuseppe che era uno degli uomini pii e si occupava nel 1618-19 di opifici alla Cima e Cà del Basso, mentre suo fratello Bernardo di Castagna nel 1622 produceva ghisa per Giovan Maria Manzoni fu Pasino di Barzio nella fucina che poi fu acquisita dai Crespi. La fucina grossa della Castagna era dei consorti Mazzucconi e Paolo Crotta, il quale la teneva in fitto nel 1631 dandola a frazioni di mesi. Francesco Crotta della Fucina di Laorca possedeva invece nel 1625 un’altra fucina alla Piana di Consiglio, nella quale entreranno in seguito anche i Mazzucconi del ramo detto dei Poli; infine un Giovanni fu Filippo Airoldi di San Giovanni ottiene nel 1627 una fucina da Biagio Ravizza di Castione. Nel complesso sembrano dislocarsi sul territorio fra San Giovanni e la Piana almeno otto officine da ferro, che sappiamo producevano chiavi, ferri battuti, filo di ferro e altri elementi e che si completavano con un nucleo alla Cima sempre lungo lo stradale. Su queste officine gravitavano i fabbri, alcuni divenuti notevoli tanto da avere bottega in Lecco, come è il caso di Vittore Ceredoni di Cereda, la cui stazione fu passata dal figlio Carlo nel 1631 a Francesco Manara. Alcuni mercanti avevano su esse un ampio giro d’affari e a Venezia esercitava Bernardo Gualzoni di Varigione, il quale nel 1630 lasciava ai vicini la terra fra la sua casa e la chiesetta locale per formarvi una piazza.
La situazione delle fucine era però sempre più difficile dopo il 1620. Un esempio ci è offerto dagli atti della cappella di San Bernardino della Collegiata che possedeva una fucina detta sopra la Cima, affittata a Bernardo di Giuseppe Airoldi detto il Frate; nel 1627 era andata in rovina perché l’Airoldi non riusciva a pagarne il fitto di 150 lire l’anno ed era fuggito pieno di debiti; e allora non poteva valere che 900 o 1000 lire. In una inchiesta intervengono Barone Baroni di Ambrogio massaro vicino e già lavorante di ferro, mastro Raffaele Crotta fu Battista di Cavagna, Matteo Badoni fu Ghelmino che vi aveva lavorato dieci anni innanzi: essi testimoniano che il mestiere del tirar filo va male e che in paese vi sono otto o dieci fucine che non fanno quasi niente, o che ve ne sono 10-12 in vendita. L’opificio fu dato poi a Simone Pellegretto Invernizzi di Malavedo con fitto di 50 lire e nel 1644 fu venduta, col livello, a Pietro Crotta fu Agostino di Malavedo. Prima la peste, poi le distruzioni del Rohan, segnarono un notevole ridimensionamento del lavoro fino alla metà del secolo.
Questioni religiose nel primo Seicento
Nei primi decenni del secolo le cose però erano ben migliori e la comunità aveva desiderio di un cappellano fisso, se non di una nuova parrocchia. Probabilmente dopo l’intemerata del cardinale nel 1615, gli abitanti si risolsero a chiedere un sacerdote, che fu Giovanni Battista Cattaneo di ser Cesare di Primaluna, al quale si deve probabilmente se la confraternita del Rosario prendesse piede in Varigione, venisse ben governata e quindi approvata col 1618, dopo un favorevole intervento del 1617 del vicario foraneo Giovanni Battista Longhi (v. 12 f. 186). Eppure in quello stesso 1617 il 4 febbraio veniva posta al rogo una Caterina, accusata di esservi venduta al demonio, di aver ammaliato e ucciso, e per testi e per sua confessione fu giudicata dal Santo Uffizio “strega e lamia spaventosa e avvelenatrice immanissima”; la sua morte fu dimostrativa anche per la quantità dei sortilegi che usavano in queste terre, né si potrebbe staccare questo fatto dalla immediata ripresa della scuola della Madonna di Varigione (v. 16 q.12).
In quello stesso anno anche il prete Cattaneo venne circondato da dicerie, si mascherava, beveva, frequentava secolari e riceveva donne in canonica; il vicario pensava di sostituirlo con prete Giovan Pietro Mornico di Tremenico, il quale però aveva le sue cose da sbrigare e comunque pretendeva dagli uomini della Castagna almeno 7 scudi al mese, mobilio e legna; intervenne il prevosto di Primaluna , ricordando che prete Cattaneo era molto povero anzi miserabile, che il padre era morto lasciando una piccola eredità ma anche molti debiti e che su di lui gravavano la madre e due sorelle da marito che ora non potevano maritarsi se non con l’aiuto di persone pie (v.12 f. 50). Il prete era stato inviato a Milano per esercizi spirituali, ma infine trattenuto . Il 20 giugno 1618 i sindaci di San Giovanni alla Castagna spiegarono alla Curia che il prete non aveva compiuto nulla di disdicevole alla sua professione e che era forse accusato solo da “duoi o tre di questa cura soliti a perseguitare i nostri Curati, per i quali non hanno mai potutto fermarsi qua longamente” (f. 48).
Prete Cattaneo della famiglia dei Torriani venne così rilasciato e continuò stavolta per vari decenni il suo ministero. Nel 1634 si trova però a battezzare il vicecurato Giuseppe Pallavicino canonico di Lecco e ciò fino al 1637; in seguito pare ricomparire il Cattaneo, del quale rimane un ritratto di notevole valore, che si potrebbe ascrivere a Luigi Reali. Nel 1652 divenne vicecurato Bernardo Tartari di Acquate, che era stato cappellano a Varigione. Nel 1654 don Giovanni Battista Cattaneo era ancora ufficialmente il curato, certamente ormai piuttosto anziano.
Frattanto c’era stata la grande peste, che aveva falcidiato ogni località Cereda compresa. Molti furono allora i testamenti di lascito, in special modo alla Vergine del Rosario, tutti nel 1630: un legato di Giuseppe Valsecchi (visita 1746), un Giacomo Cugnasco, un Giuseppe Gualzoni di Varigione, il ricordato Bernardo Gualzone da Venezia, Diamanta Crotta che era la vedova del maestro Cristoforo Crespi, Maria Locatelli vedova di Andrea Airoldi e anche del fu sergente Bartolomeo Mazzucconi (nota legati della vicecura del Consiglio dal 1629 in qua: 1639).
Nel 1647 i fuochi erano 49 e 42 nel 1655 (cart. 28). La conferma della falcidie della peste è data anche da un elenco del 1653 (v.12 f. 23), per cui la cura non aveva che 164 persone di cui 120 da comunione. Come in tutto il Territorio, soltanto nel 1685 si tornò a valori simili ad inizio secolo, contandosi così in luogo 315 abitanti di cui 210 da comunione, segno di un aumento della popolazione giovanile (v. 11 f. 611 v).
La nuova parrocchia
Nel 1652 dunque prendeva l’incarico della vicecura don Bernardo Tartari, che era stato un nobile allievo del collegio gesuitico di Brera ed aveva nel 1647 stampato a Milano una Descrittione del Territorio di Lecco, dedicato a Marcellino Airoldi, tesoriere dello Stato e allora nominato conte di Lecco. La sua famiglia era nobile in Acquate e si dieva provenisse dalla Germania. Giuseppe fu parroco a valgreghentino e poi ad Acquate nel 1645, Pietr’Antonio era visitatore fiscale del Ducato, Francesco Agostino rettore dei Seminari dal 1689 al 1693 (Pensa, p. 156, Humilitas). In seguito Innocenzo fu prevosto di Olginate (1707-1744) e suo fratello Bernardo il noto estensore della Cronichetta del Convento de’ Capuccini di Lecco a partire dal 1718.
Il Tartari si diede da fare per costituire la parrocchia fondata poi il 17 agosto 1675, con decreto del vicario generale abate Andrea de Polastris e rogito dell’attuario curiale Giovan Tommaso Buzzi. Il 29 marzo 1674 la congregazione della vicinanza, con rogito di Giovanni Cattaneo già podestà e barone di Giulio abitante al Cavalesino, deputava il reverendo Francesco de Rainis a comparire davanti al cardinal Alfonso Litta per ottenere la separazione dalla prepositura. Inviava pure una supplica avvertendo di aver celebrato l’istrumento di dotazione, nel quale aaveva gran parte il donativo del Tartari; e il 28 maggio 1674 fu incaricato il visitatore diocesano per la ricognizione in luogo degli impegni assunti (vol. 17). Clemente X il 20 aprile 1675 scriveva al prevosto Carlo Francesco Sala affinchè desse il suo assenso, con la ricognizione usuale di un cero da due lire l’anno; il prevosto acconsentiva con rogito di Baldassare Crippa curato di Rancio notaio apostolico e cancelliere della Pieve (arch. Parr.). Seguì allora il 21 dicembre la consacrazione dell’altar maggiore, e nel 1884, sostituendo l’antica mensa con una di marmo, si trovò alla base una nicchia con una ciotola di terracotta invetriata, nella quale stava l’autografo del Tartari e cinque cartocci di reliquie dei santi Martino, Annita, Donato, Felice e Faustino e un Agnus con le effigi di san Filippo apostolo e dell’Agnello pasquale; il coperchio aveva una cicogna scolpita sulla parte interna e la data sull’esterno (Scoperta Archeologica, in Il Resegone, n. 115, p. 3 del 25-26 aprile 1884).
La chiesa era stata frattanto ricostruita, o più propriamente ampliata e decorata ed appariva nel 1685 come di recente ed elegante struttura, si può credere con una sola navata a volta a botte e lesene parietali, nelle forme classicheggianti del tardo barocco locale; misurava braccia 40 in lunghezza, 10 in larghezza –quindi come il tempietto precedente- e 24 in altezza, ossia circa metri 23 per 6 per 15 d’altezza. Tutta l’opera era stata direttamente offerta dal nuovo parroco. E’ probabile che si sia proceduto per gradi, oppure che fossero stati attuati dei precedenti miglioramenti, di cui vi è traccia per il 1650 con la formazione della ancor inesistente Confraternita del Santissimo, e quindi forse con adeguamenti all’altar maggiore, e nel 1661 con il battistero, allora provvisto di un nuovo sacro fonte, che è un buon esempio della ebanisteria minore del tempo (vol. 21 q. 1). Per quanto è possibile ricavare dai sondaggi eseguiti nei restauri, l’edificio corrisponde alla parte centrale della chiesa odierna, fino cioè ai pilastri del transetto, e al settore d’ingresso che ancora mostra la concavità del vecchio presbiterio e un frammento di affresco appunto del tardo Seicento, raffigurante il patrono e un angelo, dipinto che doveva restare sulla parete di fondo sopra l’altar maggiore. Anche l’altare, posto, come si è visto, nel dicembre 1675, era un manufatto elegante di legno intagliato; non è da escludere che a questo elemento competessero le magistrali statue lignee dei Santi Carlo e Bernardo, in seguito trasferite in due nicchie troppo anguste sui lati della navata sopra il cornicione. Dalla parte del vangelo, cioè verso nord, il parroco aveva a sue spese aperto una cappella dedicata a San Giuseppe; qui una lapide marmorea ancora esistente rammenta che nel testamento del parroco redatto dal barone Giuseppe Cattaneo, l’altare ebbe una dotazione nel 1693, modificandone poi nel 1701 il patronato per la sua famiglia, gravato di una messa nella festa del titolare (vol. 11 f. 601; vol. 32 p. 170). Il Tartari aveva fatto costruire anche il campanile, la sacristia, la casa parrocchiale sul fianco sud; un tratto della vecchia sacristia si vede in adiacenza al campanile a lato dell’antico presbiterio. Fu provvista anche diversa suppellettile e soprattutto un gruppo di reliquie, le ossa dei Santi Prospero, Benigno, Massimo e Fortunata, tutti titoli beneauguranti, nel 1679, poste in statue lignee, quelle dei Santi Vittore, Modesto, Innocenzo e Reparata in due cassette di legno ornato di rame argentato nel 1684, infine quelle dei Santi Eusebio e Benedetta in altre due capsule dorate nel 1692; ma nel 1685 v’era pure parte di una veste di San Carlo.
Il Tartari, che era dottore in teologia, protonotario apostolico, vicario foraneo e vicario del S.Ufficio della Pieve, fu molto amato dalla popolazione per zelo e pietà. Un suo elogio compare sul ritratto che la parrocchia gli volle fare; un altro nella registrazione della morte avvenuta a 79 anni il 16 ottobre 1703: “Il molto reverendo prete Bernardo Tartari parroco di San Giovanni alla castagna, uomo di pietà ed anche brillante nello splendore dell’esempio, coltivato così particolarmente nelle altre virtù, così da essere insignito dalla reverendissima Curia arcivescovile del vicariato foraneo che esercitò con la vigilanza tipica del singolare suo carattere, nel settantaseiesino anno di età e completati 51 anni di residenza in questa parrocchia, consumato dalle malattie, accolti col massimo ardore del cuore tutti i sacramenti, morì il giorno sopra detto e nel giorno seguente fu sepolto nella stessa chiesa parrocchiale con l’assistenza di 24 sacerdoti”. Così scrisse don Giorgio Magreglio parroco di Castello e vicecurato di San Giovanni.
A fine gennaio 1704 gli successe Giovan Francesco Agudio.
Fra Seicento e Settecento
Nella seconda metà del Seicento si ebbe la ripresa del lavoro del ferro. Fra gli imprenditori si trova Vittore Gualzoni di Varigione, che esercita alla Cima ma anche alla Castagna in una fucina grossa nel 1674; la sua ditta si estende nelle usuali comproprietà anche al Basso o Capizzone e alla Cima. La fucina della Piana nel 1660 associa i Mazzucconi detti Poli a Giovan Maria Crotta della Castagna. I Crotta di Malavedo prendono in fitto nel 1683 la Fucinetta della Resica alla Castagna di proprietà di Filippo Crotta del paese. Una fucina con carbonili passava nel 1650 da Andrea Mazzucconi della Castagna a Pietro Moiolo di Malavedo. Entrano nel ramo industriale anche i baroni di Cavalesino, i Cattaneo, che avevano fucine a Rancio e Laorca dal 1665; a San Giovanni interviene invece in una trafileria nel 1668 il marchese Gio Antonio Serponti di Giorgio, segretario di stato, con i Ruffinoni e i Valsecchi. I Crespi rimangono probabilmente ancora a San Giovanni, anche se una loro ditta viene segnalata a Castello, mentre continuano a risiedere i Valle, fra cui Protaso il quale, da fabbro del borgo, nel 1672 acquista una fucina alla Gera e si avvia a fondare una nuova importante dinastia di imprenditori: nel 1709 egli figura tesoriere della chiesa. Tale ripresa può esser posta in rapporto con le possibilità finanziarie a reggere una nuova parrocchia, con l’accordo dei notabili Mazzucconi, Valsecchi, Cattaneo, e tenendo conto che pure i Tartari, nella persona di Giovan Battista di Acquate erano ugualmente entrati in affari del ferro a Lecco; nel 1701 la cappellania di San Giuseppe era assegnata a tale famiglia, dopo la dotazione attuata dal barone Giuseppe Cattaneo. Ad essa era incardinata una confraternita della Buona Morte eretta nel 1694, la quale raccoglieva una quantità di iscritti del Territorio in competizione con quella eretta nella Collegiata: a questa cappella apparteneva con alta probabilità il quadro di San Giuseppe che tiene fra le braccia il bambino addormentato fra la Vergine e gli angeli, opera di squisito pennello del primo Settecento.
Anche nel Settecento la comunità continuava ad ampliarsi. Intorno alla chiesa, o meglio fra lo stradale e la via per Cavalesino, si inalzavano varie dimore, fra le quali quel palazzetto tardosecentesco degli Invernizzi che fu poi della famiglia Agliati.
Col censimento del 1719 la realtà produttiva del paese era di tutto rilievo, con un paio di trafilerie dei Mazzucconi nella parte più a valle, una fucina di Angelo Balestra più a monte, un’altra di Carlo Crespi alla Castagna, cui si devono aggiungere in quel periodo un’altra alla Resica della Piana ancora dei Mazzucconi e altre due del Crespi e di Protaso Valle; questi possedeva un ulteriore impianto sul confine di Castello.
Un elenco più preciso si ricava dalle tavole catastali della metà del secolo. In esse sono segnalate varie imprese. Dopo il confine di Castello era il maglio di due ruote di Giovanni Valli, quindi il molino a tre ruote del marchese Serponti e la fucina di Giovanni Battista Dalla mano. Ormai nell’abitato, fra le botteghe Mazzuconi, Baroni e Badoni, stava sulla fiumicella una macina del Serponti. Dopo lo slargo della chiesa, sempre verso il fiume era il mulino di Antonio Locatelli detto Rossino. La sequela di botteghe dei Monti, Valsecchi e Badoni era interrotta dal torchio da olio sempre del marchese Serponti. Poi si riprendeva alla Castagna con l’impianto di fucina di Giuseppe Barone e compagni e con quella grande di Carlo Crespi data in fitto; più avanti stava la fucina isolata di Giovanni Gattinoni con un mulino di Giacomo Manzoni; infine c’era l’officina con maglio alla Piana di Giuseppe Barone e compagni. Era in atto dunque un ampio movimento lavorativo, non dissimile dal complesso della Vallata, con una presenza ancora rilevante di edifici legati alla attività della terra, a servizio cioè delle ampie colture delle colline prossime. Mentre infatti le botteghe, da intendersi come di fabbri e maniscalchi, guardavano il lato opposto della strada, dentro la Contrada stavano sei o sette case masserizie di proprietà in buona parte dei Serponti Cattaneo e Arrigoni, la nobiltà terriera tradizionale, con intorni di orti e coltivi, oltre naturalmente alcune piccole abitazioni della gente del luogo, Crotta Gattinoni Badoni Spreafico e una bottega di Giuseppe Valsecchi sulla strada per Varigione. Quest’ultimo abitato era immerso per la massima parte in ronchi con viti e moroni, generalmente appartenenti agli abitanti del paese, ma con qualche presenza del feudatario abate conte Airoldi verso Ca de Gatti; vi abitavano famiglie tipiche, i Crotta, Ravizza, Spreafico, Valsoni, Piazza; Antonio Casati aveva una bottega, mentre del barone Cattaneo erano una casa d’affitto e una masseria, che si trovava all’imbocco dell’abitato. Lì presso, dove scorreva pure il ruscello, si ergeva la grande abitazione con masseria e stalle del reverendo Bernardo Ruffinone, attorniata da orti e ronchi: è la casa di impronta settecentesca denominata Cabolgiolo di sotto; più a monte erano le dimore dei Bellavite e Ghelmino. Sei erano i caseggiati di Cavagna, sempre fra rocnhi terrazzati, e vi stavano le dimore di un Crotta e di tre ceppi Valsecchi, oltre all’edificio dei consorti Ceredoni, bella struttura che si presenta ora con la conformazione ad U e la corte antistante cui si accede attraverso un portale sovrastato da un’edicola mariana e datata 1774. A Piazzola pare abitassero i Dell’Era. Più ampia e dalla articolazione aperta era la frazione di Cereda, che presentava anche qualche arativo ed era ormai contermine all’avvio delle selve del Montalbano; tre case appartenevano ai Crotta e ai Valsecchi, ma il maggior edificio apparteneva al reverendo Luigi Giusti, che vi teneva pure una masseria e il suo casino da nobile per la villeggiatura.
Come di consueto per i colli lecchesi, numerosi erano ormai ville e palazzi della nobiltà, punti di ritrovo o di rifugio secondo gli impegni e le stagioni. Emergeva fra esse la villa di Cavalesino del barone Giorgio Cattaneo, che era anche segretario di Stato; i suoi possedimenti intorno al fabbricato erano molto vasti, orti, vigne, ronchi e un arativo con viti che si stendeva da una parte fin dietro le case di San Giovanni al limite della stradetta e quindi, inferiormente alla casa, fino alla biforcazione della strada che saliva da Castello e si dirigeva da una parte a San Giovanni e dall’altra alla chiesa di Olate: in quel punto finiva il viale che metteva capo all’esedra antistante l’ingresso del palazzo, già strutturato in una pianta simile a quella giunta ai nostri tempi, ad elle e con elementi di servizio, che chiudevano a nord il brolo recintato da muro mistilineo. Il suo centinaio di pertiche andava a comprendere anche le case coloniche di Cavalesino, che erano divise dal confine di Olate, rimanendone una parte in quel territorio. La proprietà Cattaneo andava a confinare verso ovest con il Vincanino, un altro centinaio di pertiche di seminativi con viti e prati, nel cui mezzo stava la casa colonica diretta dai Badoni; questo luogo era del marchese Serponti ed andava a congiungersi con la muraglia dell’orto del convento di San Giacomo di Castello. Come si vede, i Serponti e i Cattaneo avevano circa il monopolio delle terre migliori, inserite in aziende molto ampie che contavano su altre terre e altre masserie nei contorni di Olate, Germanedo, Maggiànico e Lecco; da qui questi nobili traevano le materie per i torchi da vino e da olio, che erano sparsi nelle diverse località e che erano quasi tutti di loro proprietà. Essi resteranno ancorati alla terra, con l’eccezione, però provvisoria, dei Cattaneo, interessati in un certo momento, come gli stessi Manzoni del Caleotto, a qualche fucina da ferro, lavoro generalmente lasciato alla borghesia.
La chiesa nella prima metà del Settecento
Nel 1738 venne eletto dagli abitanti come parroco prete Daniele Redaelli , che era nato a Lecco nel 1698 da un ramo della nobile famiglia originaria di Ello e quindi trasferitasi a Barzago. A Lecco la famiglia notarile era giunta per la parentela con i nobili De Domo, facoltosi e dominatori della vita pubblica del borgo; Daniele studiò dai gesuiti di Brera ottenendo il dottorato in Sacra Teologia e frequentò poi un quadriennio nella nota Accademia del parroco di Rivolta; quindi ottenne la cappellania di Sant’Antonio nella collegiata nel 1725; dopo l’esercizio parrocchiale in San Giovanni, nel 1749 entrò in Lecco come prevosto, distinguendosi per erudizione e predicazione. La sua famiglia, divenuta erede degli zii De Domo nel 1733, divenne la più distinta e ricca del borgo, e il fratello Pompeo notaio apostolico fu cancelliere della pieve; Pompeo diede origine a un ramo di illustri personaggi, alcuni religiosi come l’orientalista Giovanni Daniele dottore dell’Ambrosiana, altri politici come Giuseppe Giacinto segretario del governo.
Don Redaelli aveva una congrua di 470 lire e governava nel 1746 una popolazione di 483 anime di cui 135 solo da confessione e infanti. Egli aveva uno spiccato interesse per l’arte e non meraviglia che il cardinal Pozzobonelli trovasse la chiesa in ottimo stato. Sotto il suo patronato venne ad esempio riformata la sacristia, perfetta in bellissimi armadi datati al 1739, ricca di paramenti pregiati , di suppelletili di argento puro e di reliquie; dell’apparato ora rimane solo una parte, di notevole fattura barocchetto, essendone stata distrutta un’altra da un incendio furioso che nel 1867 aveva devastato l’ambiente. Del 1739 è pure il grande vessillo del Rosario, che era stato pensato propriamente per l’oratorio di Varigione, intorno al quale si era notevolmente lavorato negli anni 1716-1718 e dove continuarono i ripristini, in specie della cantoria, del campanile e della sacristia, completamente rifabbricata nel 1747-48.
L’ideazione del bellissimo stendardo era forse connessa anche con la formazione nella parrocchiale stessa di un nuovo sacello laterale verso nord dedicato alla Vergine. Quest’opera fu attuata probabilmente nel 1741, quando avvenne il matrimonio fra Francesca Manzoni e il conte Luigi Giusti (oratore della repubblica veneta), i due nobili che già da tempo erano noti per la loro partecipazione alla famosa Accademia dei Trasformati, cui apparteneva pure il cardinal Pozzobonelli, e che trovava in quel tempo ampio spazio nella dimora degli Agudio di Malgrate, palazzo frequentato dal gruppo di letterati milanesi. A Cereda, il padre Cesare Alfonso di Barzio, aveva sistemato il casino di villeggiatura come sua dimora, e quivi trovò residenza anche la figlia che vi ebbe due figli, il maggiore, Pier Paolo, poeta anch’esso e membro del consiglio supremo di economia, oltre che barone e oratore o ambasciatore presso Venezia. Si dovrebbe attribuire alla scrittrice e alla famiglia il contributo alla nuova cappella, dedicata all’Addolorata e già esistente nel 1743, quando la poetessa venne a morte e fu sepolta appunto davanti all’altare che aveva beneficato o voluto e dove si vedeva fino al 1903 un epitaffio posto da Luigi Giusti; fu sua sicuramente la donazione della statua che Stefano Ticozzi assegna all’opera dello scultore valsassinese Carlo Antonio Tantardini. Nel 1750 si volle costruire un buon altare marmoreo e munire di cornice la nicchia della statua, nicchia che è stata ora riaperta allo sfondo della navatella di sinistra, nel luogo dove era un tempo la cappella.
Poco conosciamo di quanto avvenne nel secondo Settecento, segnato però dalla ripresa della confraternita, che dal 1753 , dopo una controversia con quella di Lecco, benchè ridimensionata limitandone l’iscrizione e il territorio, raggiunse una settantina di membri e nel 1766 prese nuove statuizioni comprendenti funzioni anche di misericordia.
Il tardo Settecento
San Giovanni confermava nel tardo Settecento la fisionomia ormai paleoindustriale della Vallata con un ampio contributo di imprese. Un elenco del 1785 offre la presenza di due fucine grosse da fonderia, poi tre fucine da vanghe, una da filo e una da chiodi, due molini da grano dei Locatelli e dei Serponti, che avevano pure un torchio da olio; infine si segnala una folla da carta di Giuseppe Cima, in aggiunta a quella rancese ancora del conte Angelo Serponti. Erano quindi 11 ditte sulle 118 del territorio. Ma le fucine erano probabilmente di più in precedenza. Nel 1767 sembrano 14, piuttosto attive con diverse compagnie, i cui prodotti andavano dal ferro colato a vanghe e filo che veniva esportato a Genova, in Piemonte, in Toscana, a Venezia; mentre continuava la fucina grossa della Castagna, che riforniva di ferro altre officine, erano in atto delle novità, in particolare era sorta la fucina gestita dai Rusconi sul luogo della antica macina dei Serponti e era iniziata la ditta di Giuseppe Arrigoni, che, come i Crespi, utilizzava rottami. Qualche tempo dopo l’opificio Crespi lasciava il posto alla cartiera del Cima; poi l’Arrigoni, che teneva diverse quote minerarie in Valsassina, entrava nel panorama lecchese con ampie disponibilità, impiegate prima a San Giovanni, specie nelle fucine grosse della Castagna e della Piana, dominando sui conpadroni, poi sul versante di Rancio con altre quattro officine, fra cui l’impianto modernissimo di Cariggio: le maggiori innovazioni appartennero alla sua attività, con metodi alla stiriana e fabbricazione anche di lameroni. Sul finire del Settecento era costui il principale industriale del paese, con due officine e il controllo delle due fonderie. La presenza del Serponti, si esplicava in diversi luoghi del territorio, non solo nel campo oleoviticolo, ma pure nelle officine da ferro, come si osserva per altri nobili, i Locatelli, i Manzoni, posessori di nuovi stabilimenti e filatoi nei dintorni, che diventano ormai una fonte cospicua del loro reddito.
I rapporti con l’estero erano sempre intensi soprattutto con Venezia. Alcune famiglie vi si erano trasferite, pur mantenendo in patria case e interessi; fra queste i Gualzoni, ormai denominati Valsoni, fra i quali Giovanni Battista, che beneficava nel 1742 l’oratorio delle Grazie del suo paese, aveva un posto di rilievo nella università dei luganegari.